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lunedì 25 gennaio 2016

Il sogno di Cavour: creare l'Italia del Nord!

Ben ritrovati!

Oggi voglio parlarvi di un libro un po' vecchiotto ma sempre interessante! Si tratta de Il regno del Nord, di Arrigo Petacco.

 

Petacco è un autore che amo molto, perché nei suoi libri un ricco insieme di informazioni e curiosità viene miscelato mirabilmente ad uno stile scorrevole e brillante. Certo, molti dati possono apparire una sorta di «pettegolezzi», ma in fondo la storia è fatta anche di questo, e non solo di date, eventi, grandi personaggi. Inoltre, non è detto che a volte, a determinare certi eventi non siano stati dei piccoli particolari, magari poco noti al grande pubblico.

Ma veniamo al libro in questione.
«Il Regno del Nord. 1859: il sogno di Cavour infranto da Garibaldi».
Il tema è quello degli eventi «risorgimentali» del 1859. Ma sono descritti con una prospettiva particolare, e cioè quella del «progetto» cavouriano: la creazione, NON dell'Italia così come la conosciamo,  ma limitata al «regno del Nord», cioè ad un'area che non arrivasse nemmeno a Roma. Un progetto che saltò per la testardaggine di Garilaldi (supportato dal Re) nel voler unificare la penisola.

«In realtà Cavour non ambiva affatto a unire in un corpo unico l'intera penisola. Uomo del suo tempo, non era scevro dai pregiudizi regionalistici e antimeridionali molto diffusi negli ambienti subalpini, e non era neppure esente dà quei sentimenti di rigetto e di chiusura che l'arroganza del Nord industrializzato nutriva e avrebbe continuato a nutrire nei confronti del Sud nei momenti di crisi nazionale economica e politica».
«Nel Parlamento torinese, per esempio, si ironizzava spesso, con poca cortesia, «sull'incapacità degli italiani del mezzodì», mentre lo stesso Cavour, esaminando in seguito l'ipotesi del costituendo Regno dell'Italia centrale, avrebbe osservato pregiudizialmente che «Firenze non sarà mai in grado di governare la popolazione emiliana che è dieci volte più forte di quella toscana. Se uniremo Firenze a Bologna sarà quest'ultima a dominare, perché la razza cispadana è migliore della razza etrusca...».»
E' vero che «non possiamo escludere che Cavour consi- derasse la possibilità di soluzioni diverse in avvenire», ma «in quel momento il suo spirito pratico lo spingeva ad affrontare il problema principale: «L'imperatore [Napoleone III]» sottolineava nella sua lettera al re «si è impegnato a cacciare gli austriaci dall'Italia e a non lasciare loro un pollice di terreno al di qua delle Alpi e dell'Isonzo. E questo è ciò che conta» concludeva soddisfatto».
«Uomo del suo tempo, legatissimo al suo Piemonte, egli nutri sempre progetti politici limitati alla creazione di un «Regno del Nord» che assorbisse la parte più ricca della penisola e fosse inserito in un si- stema federale che doveva comprendere gli altri Stati italiani. Fu l'inattesa conquista del Regno di Napoli da parte di Garibaldi a vanificare il suo progetto.
Egli, per la verità, aveva fatto tutto quanto gli era stato possibile per impedire a Garibaldi di realizzare la sua «folle» impresa. Anche dopo la conquista della Sicilia aveva continuato a sperare che quell'avventura abortisse tenendosi pronto a sconfessare i rivoluzionari garibaldini»
.

Del resto, questo era anche il progetto di Napoleone III: 
«Anche l'imperatore si era detto d'accordo e, dopo avere perlustrato tutte le possibilità, avevano trovato un'equa soluzione: l'Italia del Nord ai Savoia, l'Italia del Sud a un «napoleonide» e quella di mezzo a entrambe le case regnanti con un opportuno matrimonio di Stato».

Quello di Cavour e Napoleone, comunque, era un progetto politico-economico, che andava oltre qualunque pregiudizio. Ma questo non valeva per tutti i politici di allora.
Quando Luigi Carlo Farini fu inviato da Cavour a Napoli dopo la conquista di Garibaldi, appena giunto in città scrisse al primo ministro: «Altro che Italia, signor conte! Questa è Affrica [sic]. I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono un fior di virtù civile!». «Era con tali sentimenti», commenta Petacco, «che i fratelli del Nord si preparavano all'integrazione con i fratelli del Sud.»

Il racconto degli eventi inzia con l'«evento clou» della vicenda: gli accordi presi da Cavour e Napoleone III a Plombières il 21 luglio 1858:

«due uomini di mezz'età, eleganti nei loro abbigliamenti estivi di fresco lino, vagabondando in calesse lungo la vallata boschiva come due normali turisti, decisero, di comune accordo e con freddo cinismo, di scatenare una guerra per rivoluzionare la carta geopolitica dell'Europa e creare un nuovo Stato federale del quale furono delineati anche i confini. Solo sulla scelta del nome da assegnargli erano ancora incerti. Uno avrebbe preferito chiamarlo «Lega italica», l'altro «Confederazione italiana»»

Dopodiché, lo sgurado torna indietro, ai tentativi di Carlo Alberto di conquistare la Lombardia, al fallimento del 1848, e poi di nuovo al 1858-59, ai Mille, alla II Guerra d'Indipendenza fino alla conclusione che tutti conosciamo: l'unità d'Italia e la morte di Cavour (avvenuta di lì a poco). a chi ama la storia, gli evneti principali sono noti. Petacco si sofferma sui particolari meno noti.

Il testo si sofferma sulla descrizione dei vari personaggi, sulla loro personalità, sulla loro storia: la «tumultuosa biografia» di Napoleone III, l'astuzia di Vittorio Emanuele II e la furbizia di Cavour. Ma anche su Gioberti, Cattaneo, Mazzini («tutti e tre di estrazione borghese e di orientamento repubblicano, ma sostenitori di tesi e di propositi contrastanti e tutti quanti destinati a un onorevole fallimento») e sulla Contessa di Castigione, Virginia Oldoini. A quest'ultima, Petacco assegna anzi, un ruolo importante, per la sua missione di amante di Napoleone in nome dell'Italia. E forse esagera. Ma il racconto risulta interessante.
Ma il ritratto più bello è certamente quello di Maria Sofia di Borbone.
«Maria Sofia, sorella dell'imperatrice Elisabetta, la romantica «Sissi», era una ragazza, per così dire, moderna. Vivacissima, colta e sporti- va, cavalcava, tirava di scherma, nuotava e fumava persino, mentre lo sposo [Francesco II] era tutto l'opposto di lei».
Petacco la dipinge con l'aura quasi di un'eroina. Per esempio, riporta questo episodio. Quando il piemontese Cialdini stava per far cannoneggiare la fortezza di Gaeta «aveva cavallerescamente invitato i difensori a innalzare una bandiera nera sul palazzo abitato dalla regina che «per rango e per sesso merita da me ogni riguardo». Maria Sofia gli aveva risposto con orgoglio che di bandiere ne sarebbero servite troppe «perché io intendo essere dovunque combatte un mio soldato»».

Diversi sono i particolari, i piccoli episodi, i piccoli eventi che hanno fatto la storia: si pensi all'incidente occorso alla carrozza su cui stava viaggiando l'arcivescovo di Milano, l'austriaco Gaysruk, che «stava recandosi a Roma con il compito di appoggiare il candidato raccomandatogli da Vienna» al posto del futuro Pio IX:
«Il guasto si verificò nei pressi di Fidenza, che allora si chiamava Borgo San Donnino, e occorsero quattro giorni per eseguire le ripa- razioni. Per nulla allarmato, Gaysruk aveva atteso con santa pazienza di riprendere il viaggio. Era certo che il conclave sarebbe andato per le lunghe come al solito: eppoi, chi avrebbe mai osato prendere una decisione prima del suo arrivo? Invece si sbagliava. Fra la sorpresa generale della folla che tradizionalmente attendeva la fumata bianca in piazza San Pietro, quel conclave si concluse in soli due giorni. Un evento che non si verificava da secoli».

Il racconto procede speditamente, e va svelando di volta in volta le speranze e i progetti che caratterizzaro le scelte dei vari personaggi.
A Cavour, per dire, «appariva chiaro che, come il piccolo Piemonte, anche la Francia doveva essere interessata a ribaltare l'assetto europeo restaurato a Vienna nel 1815 e a smantellare il fronte reazionario della Santa Alleanza che, dopo aver abbattuto l'impero napoleonico, aveva consentito all'Austria di estendere il proprio dominio sulla penisola italiana». Infatti, «Se l'imperatore» confidava in quei giorni a Costantino Nigra, il suo fidatissimo segretario particolare, «intende raggiungere i suoi scopi, non può farsi troppe illusioni sulle simpatie dei sovrani delle vecchie dinastie che continueranno a considerarlo un pericoloso parvenu. Egli non potrà che contare su quei popoli che aspirano a riconquistare la loro indipendenza, primo fra tutti quello italiano».
«Naturalmente, sarebbe ora ingenuo sostenere che l'imperatore fosse pronto a impegnarsi in una guerra contro l'Austria solo per generosità d'animo. Certo, questa non gli mancava, essendo egli veramente af- fezionato all'Italia, sua seconda patria, ma Cavour aveva anche penetrato le ragioni profonde di tale sua decisione, che erano ragioni psicologiche e politiche. Tra le prime figurava il richiamo sentimentale agli impegni che Napoleone aveva assunto nel 1831 con i carbonari italiani, nonché il timore di una vendetta da parte di quei rivoluziona- ri che lo consideravano uno spergiuro. [...]. Tra le ragioni di ordine politico che animavano Napoleone, si na- scondeva, secondo Cavour, il vasto disegno imperiale di togliere al- l'Austria il predominio sull'Italia al fine di costituire una costellazio- ne di piccoli Stati nazionali che sarebbero divenuti altrettanti satelliti dell'astro centrale rappresentato appunto dalla Francia».

Il libro rimette anche un po' di ordine nei meriti e nelle responsabilità storiche.
Per esempio, tra i due sovrani degli anni Trenta, «Ferdinando [II di Borbone] è stato certamente il più calunniato e Carlo Alberto [di Savoia] il più giustificato. La storiografia risorgimentale ha infatti patriotticamente sorvolato sulle gravi responsabilità di que- st'ultimo e sui feroci processi politici che si registrarono nei primi anni del suo regno».
Ferdinando «si prestava facilmente alla critica per il suo comportamento grossolano. Di carattere impetuoso e autoritario, si esprimeva in dialetto napoletano usando un linguaggio da stalliere. Dava del tu a tutti, disprezzava la cultura e chiamava pennaruli gli intellettuali, ma sapeva farsi amare dal suo popolo [...]». Inoltre, si era «rivelato uomo di polso. Aveva ripulito la corte dei ministri e dei faccendieri più corrotti, emanato un'amnistia generale e reintegrato nel grado i vecchi ufficia- li murattiani che erano stati espulsi dall'esercito. Risanò anche il bilancio dello Stato riducendo drasticamente il suo stesso appannaggio reale e dimezzando o eliminando del tutto le rendite passive che suo padre aveva distribuito con manica larga ai suoi cortigiani».
Di Carlo Alberto, Mazzini («forse esagerando») scriveva Mazzini: «Era un furore senza grandezza di fine. [...]. Parea temesse di vedersi strappate le vittime. Aveva chiesto sangue e dava sangue. Le mani della sua giustizia somigliavano a quelle dell'assassino... »
«Sotto il suo regno vennero realizzate molte riforme per favorire lo sviluppo economico, ma nei confronti del movimento liberale il sovrano era rimasto ostile, continuando a indirizzare la sua politica all'ortodossia legittimista, all'amicizia con l'Austria e alla totale devozione alla Chiesa».

Con lo stesso stile, viene in parte riabilitata la figura di Franceschiello, Francesco di Borbone. Il personaggio non mancava di debolezze e di ingenuità, ma era comunque bonario ed onesto. 
«Francesco era cresciuto nel culto della madre, morta subito dopo il parto. Suo padre si era poi risposato con la granduchessa Maria Teresa d'Austria che gli a- veva scodellato dodici figli in tredici anni. [...]. Non amato dalla matrigna, [...], Francesco era stato allevato dai preti e in particolare da monsignor Nicola Borelli, il cappellano di corte, dell'ordine degli scolopi, che lo aveva indottrinato in maniera tale che il povero giovane, già timido per natura, ne era sortito bigotto, fatalista, superstizioso, introverso e anche sessualmente impedito. Basti dire che quando era ancora fanciullo uno scolopio era incaricato di vegliarlo durante la notte per impedire che nel sonno commettesse involontari «atti impuri»». E così via.
Ma leggiamo questo passo:
«La mattina del 6 settembre 1860 la coppia reale [Francesco e Maria Sofia] abbandonò il palazzo portandosi appresso pochi bagagli. Maria Sofia vi lasciò il suo intero guardaroba e Francesco disdegnò persino di ritirare dalla banca il suo patrimonio personale che consisteva in undici milioni di ducati, cui si erano aggiunti i cinquanta milioni di franchi oro che Ferdinando II aveva depositato, per prudenza, presso la Banca d'Inghilterra, ma che Francesco, con un gesto patriottico, aveva fatto rientrare in patria.»

Certo, ormai tutte queste cose sono più che note alla critica storica. Ma credo che noi che facciamo parte del cosiddetto «grande pubblico», ma di quel «grande pubblico» che ama la storia, possiamo apprezzarle!
Veramente un libro consigliato!

Un caro saluto a tutti.
Alla prossima!

N.B.
TUTTI I GRASSETTI SONO MIEI.

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